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martedì 16 dicembre 2014

La nostra tradizione dice che...

«Il giorno di Natale - si legge in un rapporto napoleonico del 1811 redatto dall'allora prefetto di Forlì Leopoldo Staurenghi - ogni famiglia si fa una minestra di pasta col ripieno di ricotta, che chiamasi cappelletti. L'avidità di tale minestra è così generale che da tutti, e massime dai preti, si fanno delle scommesse di chi ne mangia una maggiore quantità, e si arriva da alcuni fino al numero di 400 o 500. Questo costume produce ogni anno la morte di qualche individuo per le forti indigestioni». 

Di una minestra «composta di ricotta, formaggio, uova e aromi, il tutto avvolto in pasta detta spoglia da lasagne» parla nel 1818 il forlivese Michele Placucci nel suo «Usi e pregiudizi de' contadini della Romagna». Sono dunque almeno due secoli che i cappelletti costituiscono uno dei tratti distintivi della Romagna. 
LA RICETTA GIUSTA
Cappelletti, dunque, ma qual è la ricetta giusta? Perché su come farli la Romagna si divide: basta spostarsi da un paese all'altro per mangiare cappelletti - tutti ottimi, per carità - diversi fra loro. La sola a non cambiare è la sfoglia, che dev'essere di farina di grano tenero, uova e acqua, né troppo morbida né troppo soda, omogenea e consistente. È sul contenuto del classico involtino, e batù, che le soluzioni diventano tante.
UN PRIMO DILEMMA “CARNE SÌ, CARNE NO”
Escludendo i tortellini bolognesi, che sono altra cosa, nel ravennate e nel cesenate prevale e batù di soli formaggi: forma, ovviamente, con l'aggiunta di un formaggio morbido che può essere la ricotta, il tomino, il raveggiolo o la casatella. Mentre invece nel forlivese e nel riminese si utilizzano anche carni leggere: petto di cappone, vitello, lonza e mortadella. - Noce moscata sempre e poco sale, poiché la forma di per sé fornisce sapidità al composto. 
Le soluzioni sono davvero tante, forse una per ciascuna famiglia o ristorante. A mano a mano che si allontanano dalla loro terra d'origine, i cappelletti finiscono fatalmente per subire alterazioni tali da renderli irriconoscibili. Citiamo il caso di un ripieno nel quale le compaiono maiale arrosto, cervella di vitello, mortadella e molto burro. Qualcuno potrà chiamarli ancora cappelletti, ma per favore non aggiunga «romagnoli», perché coi nostri hanno poco da spartire.
Si dirà che anche il grande Artusi prevede la carne, ma è bene sapere che il suo arcinoto «La, scienza in cucina e l'arte di mangiar bene» non rappresenta le usanze a tavola in Romagna, quanto il mangiare borghese del centro-nord d'Italia. 
Uno che se ne intende, Graziano Pozzetto, ha scritto recentemente in “Le minestre romagnole, di ieri e di oggi” che l’aggiunta di carni di petto di pollo, lonza o altro, «non ci sembra che migliorino affatto il gusto, e comunque esula dalle migliori tradizioni”.
Quella dei cappelletti asciutti col ragù è un’usanza che ha preso piede negli ultimi decenni, ma che non tutti i buongustai apprezzano. Si tratta né più né meno, affermano, di una storpiatura dovuta alla ristorazione di massa. Già che si parla di tradizione, bisogna riaffermare che la loro «fine gloriosa» - è ancora Pozzetto a dirlo – sta nell'affogare in un brodo misto di carne di manzo e di cappone.  Altro errore da evitare è quello di cospargerli di formaggio grattugiato: così facendo non si fa che alterare sapori che non hanno bisogno di nient’altro per risultare gradevolissimi. 
E allora? Fateli come vi pare, ma a Natale cappelletti in tavola.
Fonte: (Da un articolo apparso su "Settesere" n° 22 dicembre 2012)

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