Sulla Rocca Comunale di Lugo è collocata una targa marmorea, dettata da Olindo Guerrini, che cosi recita:
PIÙ CHE QUESTA PIETRA / DURI IL RICORDO DI / ANDREA RELENCINI /STRANGOLATO E BRUCIATO QUI PRESSO / NEL MDLXXXI / PER SENTENZA DELLA S.R.INQUISIZIONE / ED AMMONISCA CHE LA CHIESA NON TOLLERA / OMBRA DI LIBERTÀ
La strada laterale destra della Rocca, quella che immette a Piazza Baracca è intitolata ad Andrea Relencini, figlio acquisito di terra romagnola il cui martirio non potrà essere dimenticato.
Ma chi era Relencini? Aiutandomi con uno scritto di Ambrogio Bongiovanni (1848-1916) già Direttore della Biblioteca Trisi di Lugo, storico, amante degli eventi di Romagna, inizio dalla fine della vita del grande Modenese trapiantato e naturalizzato lughese: Da una mattina d’estate dell’anno 1581 quando sotto un cielo limpido e sereno, già dalle prime ore, le strade polverose della Terra di Lugo si animano di persone giunte da ogni parte del contado, con ogni mezzo, fino a divenire una moltitudine che la si vedeva solamente nelle feste delle grandi città. Quale era la novità. Era corsa voce di un fatto eccezionale, mai accaduto a Lugo e cioè il supplizio di un empio, eretico, seguace di Lutero, condannato dalla santa inquisizione. Nelle parole e dai volti della gente si intuiva sdegno, odio e ribrezzo per il condannato e tutti, salvo pochi, erano ansiosi di veder applicata la sentenza. Nella piazza era stata preparata una catasta di legna disposta a squadra, necessaria per il rogo “purificatore” e la gente era ammassata all’esterno della Rocca in attesa che fosse calato il ponte levatoio per poter accedere alla piazza. Con un rumor di catene il ponte viene abbassato e la gente prende posto ai lati della piazza in attesa di assistere a quell’evento che di li a poco determina la morte di un libero pensatore, ma prima di tutto di un uomo, messo a morte da altri uomini che nascondevano dietro la carità cristiana la loro crudeltà al limite del sadismo, solo perché la pensava diversamente da loro e non voleva sottoporsi alla volontà dogmatica di una ingiustizia di egoisti, ambiziosi solo di potere. Cominciano con l’entrare nella piazza cento cavalieri in armi, i trombettieri che con i loro suoni fanno rabbrividire, uno stuolo di preti e frati con un gonfalone su cui è disegnata una croce irta di chiodi. Ecco poi entrare il potere rappresentato dai membri dell’ufficio dell’inquisizione, dai dignitari del sacro ordine domenicano, dal rappresentante del vescovo di Imola, dal commissario estense e così via con giudici, notai, anziani della comunità, valletti, cavalieri, sgherri ed altra gente armata. Uno scabino sale sul palco dove già è stato portato il disgraziato a lato della forca e dà lettura all’atto d’accusa. Dopo ciò un frate si avvicina al condannato con una croce in mano esortandolo all’abiura ed al pentimento. Al rifiuto con la “fiera ostinatezza col dover obbedire alla intimazione del tribunale inquisitorio” da parte del condannato, un notaro del seguito legge la sentenza di morte. “Ei non tiene china ne tentenna la testa, e rifiuta di baciare un Cristo di legno, mentre lo porta nel cuore”. Ad un gesto del giudice, la vittima viene presa in consegna dal carnefice per la ferale esecuzione. Viene impiccata e non si ode un gemito o un lamento ed appena dati gli ultimi tratti di vita, viene tagliata la corda e gettata nella catasta di legna a cui è appiccato il fuoco. Eseguita la sentenza le sue ceneri vengono disperse perché di lui non resti niente.
Testo di Ugo Cortesi
Fonte:http://vecchio.italialaica.it
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