E’ indubbiamente curioso
e interessante portare alla conoscenza di tutti, quella che era la tradizione
romagnola durante il periodo Pasquale e in particolare disquisire su uno dei simboli odierni
della tavola imbandita a festa, quale è l’UOVO PASQUALE…. ma non certamente intendendo quello di fine
cioccolato fondente (anche perchè NON esisteva): per esempio nel pomeriggio del Sabato Santo era “tradizione”
andare in chiesa a portare a benedire le uova per la colazione del giorno di
Pasqua. Ogni famiglia porta sull’altare il suo cestino di uova avvolte in un
bel tovagliolino ricamato. Ecco cosa scrive Vittorio Tonelli, noto
scrittore folclorista, nel suo libro “Il diavolo e l’acqua Santa in Romagna” Editore:
Edit Faenza.
Le uova, che un tempo
non si mangiavano durante la quaresima, si accumulavano in cucina per gli
impasti delle pagnotte e dei passatelli, per essere cotte sode (quelle
benedette) e servite a colazione al mattino di Pasqua, con la pagnotta. Prima
di mangiare si baciava l’uovo, si diceva un Pater-Ave-Gloria e si provvedeva a
buttar il guscio nel fuoco, manifestando lo stesso rispetto usato dalla massaia
per l’acqua di bollitura, che, considerata benedetta, si conservava come
detergente prodigioso della pelle .
Altrettanto
nel libro “La sacra tavola: il cibo e il
convivio nella cultura popolare romagnola” di Eraldo Baldini, si cita lo
storico De Nardis per descrivere minuziosamente la mattina di Pasqua e la
centralità dell’uovo nella tradizione romagnola:
“ Si mangia a digiuno l’uovo benedetto o lo si mangia
nella minestra che quasi sempre è la fiorita tritura (in dialetto la Tardura ovvero
la stracciatella a base di uova e formaggio grattugiato). Con le uova si
confezionavano i passatelli, un’altra tradizionale minestra pasquale (quando
essa non consistesse nei cappelletti). Si preparavano poi le pagnotte dolci e
la ciambella, si usavano da friggere impanandole con pezzetti di carne d’agnello. L’acqua
in cui erano cotte le uova sode di pasqua, pregna di forza sacro-magica e
rigenerativa, si conservava per farne uso terapeutico o la si spargeva nell’orto
in atto propiziatorio della fertilità; oppure in un eccesso di mistico rispetto,
la si gettava tra le siepi affinchè non fosse calpestata…
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